giovedì 16 febbraio 2012

il lascito



Avviso per il lettore: questa non è letteratura


IL LASCITO


Amo quella luce terribile, tagliente e inflessibile che mi fa crescere. E la odio.
E’ come un dolore, una commozione indicibile al centro del petto: sono stata
“illuminata” da una nuova comprensione e ne sono io il centro , ne faccio parte,
ne sono la causa e l’effetto . E’ una scoperta essenziale ed elementare , una luce
quasi intollerabile che colpisce a tradimento …..sto male perché è caduto
un altro velo, e dietro il velo non c’è nessun nemico. Mi ero ingannata ;
le notti buie dell’angoscia sono state invano, invano i ragionamenti, invano le paure,
falsi i ricordi.
Poi però, la vita migliora, un po’ alla volta.


6 AGOSTO O COMUNQUE ESTATE, 1955
Nella piazza calda e
deserta ci siamo solo io e mia madre . E’ presa dai suoi pensieri, mi stringe la mano, trascinandomi un poco. Mi sembra che è la prima volta che siamo io e
lei, senza i miei fratelli, ma per tutto il tempo non mi rivolge la parola
.Sono piccola, so che sto per farmela addosso . Quando succede, lei dice solo- lo sapevo! -



OBAN, ISOLE EBRIDI 16/6/2009

In viaggio con Arturo è sempre un po’ come se volessimo ignorare che è passato tanto tempo
da che ci conosciamo e che siamo cambiati. Vivendo poi in due città diverse,
non ci hanno raggiunto neanche i sentito dire degli amici e poiché raccontarsi
è diventata sempre più un’arte illusoria, ci rifacciamo un po’ al “mood” del
passato, in cui io fingo di considerarlo l’uomo più alternativo della sua
generazione e lui la donna più bisognosa di un amico non maschilista. Sono contenta
in viaggio con lui, perché si può non parlare ma solo guardare e camminare, fermarsi
a bere una tazza di tè, riposarsi, scrivere le nostre impressioni di viaggio, poi
riprendere lo zaino e riandare. Niente ansie di prestazione. I viaggi fatti
insieme hanno sempre avuto una cifra un po’ intima, non malinconica , ma intima, come se ognuno condividesse i pensieri dell’altro, cosa non vera, naturalmente, ma plausibile, e la plausibilità di un incontro sembra essere alla mia età già un buon risultato.

PREGUIERA SCOZZESE

Quando sarò morta,
Signore
Non abbandonarmi per
molto in quello spazio ignoto
Ma riprendimi dalla
fanghiglia che lascia la marea
Sulle coste della
Scozia e della Cornovaglia.
Riportami alla luce
tra le alghe che si bagnano e poi si asciugano
Dove non sono sola
Ma partecipo del
respiro e della pace
Quando il mare
dondola su di me e io non ricordo più
Il dolore
che mi hai dato perché quello era il tempo
Ma se così non
potesse essere
Fai di me quello che
vuoi, Signore, e così sia.


10 giugno, Eriskay
Queste isole
sorprendenti per una bellezza completamente diversa da quella a cui siamo
abituati, una bellezza ruvida e selvaggia, a cui mi sento quasi impreparata,
hanno , nel loro farsi paesaggio umano, un che di provvisorio, come se non
valesse la pena di darsi tormento per qualcosa che il vento spazza via domani,
che la marea trascina e decompone. La forza degli uomini e delle donne si è
esaurita nel costruire le proprie case che son tirate su come dal nulla, in
mezzo a pianure prive di alberi, dove le pietre si alternano agli sterpi, dove
solo il mare che apparirà all’improvviso, tra altrettanto improvvise dune di
sabbia bianca, sa essere collegamento e sogno, paesaggio e risorsa. Le persone
che vivono qui parlano del tempo meraviglioso che fa, mentre io sono chiusa nel
mio giaccone più invernale.
Rientriamo in macchina dopo un paio d’ore di vagabondaggio
in libertà. L’autoradio passa la colonna sonora di “ dirty dancing”

Patrick Swayze,
bello, sexy, ma anche buono, per bene. Forse un po’ rozzo,
senza laurea, ma una, bruttina così ,che si vive un’estate così gloriosa …
Ho amato Patrick e tutti gli uomini con le spalle larghe e
il bacino stretto, per cui , quando mi innamorai di Francesco , che era esattamente il contrario,
mi sfracellai, dopo qualche anno, sullo scoglio del suo cannibalismo
intellettuale, e della mancanza di attrazione reale. Ci separammo, con un figlio.
Ancora mi rivedo impacchettare, con infinita pazienza tutti gli oggetti della nostra casa , che entrambi abbandonammo, non senza,accanto allo sperdimento, una sensazione di leggera
euforia.

Ci sono momenti nella vita in cui non puoi permettere alla pena di fermarti. E’ quasi come fare una finanziaria, i tagli sono inevitabili quando stai per affondare, quando cominci
a perdere la luce che ti fa vivere, quando accettare l’altro ti procura una
dolorosa confusione, quando comincia a sembrarti naturale soffocare la tua
essenza più autentica. Fu così. Capisci indistintamente che la fuga da
tutto questo e’ la chimera di mezza giornata, e la mediazione pure, e che non puoi farci
proprio niente di niente. Fu così che detti voce a quel disagio ,imponendomi di non avere compassione, di me, naturalmente , mentre avrei dovuto
averne, riconoscermi il dolore e vestirmi
di nero . Ma la ragazza che ero se lo negò e si vestì di rosso. Ero ancora
lontana dalle prove più dure del karma.
Quando ero giovane pensavo che , a mano a mano che gli anni
passavano,avrei raggiunto una maggiore comprensione di tutto ciò che c’è da capire,
di quello che conta veramente, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, di cosa significa
crescere, cosa significa amare, se è meglio fuggire di fronte al nemico o affrontarlo, se è meglio vivere seguendo il tuo essere più spontaneo, o dar corso alla volontà, al voler essere.
Se è meglio, nei rapporti umani, sforzarsi di trovare il punto di mediazione, di
tacere, di assecondare, magari a proprie spese, o piuttosto far vivere il proprio essere più istintivo.
Se ai figli è meglio dire tutto oppure no,
se è possibile che i nostri genitori ci abbiano solamente amato, se è vero che
alcuni sono migliori di altri , se avere più controllo è meglio che averne
meno, se la tua storia si è determinata sulla base di quelle poche cose che hai
deciso a venti anni, oppure non è vero, se devi sforzarti di amare e perdonare chi non
ti ha amato e ti ha danneggiato, se è giusto vivere la sfrenatezza del rischio
o accontentarsi di quello che si ha.
Tutto questo credevo che l’avrei capito meglio invecchiando e invece non è
così. Ultimamente mi stanno tornando alla mente certe frasi di K. Gibran dove dice che c’è un tempo per piangere, per ricordare chi non c’è più e per soffrire amaramente disgrazie e restrizioni, e c’è un tempo per ridere insieme a qualcun altro, bere, amarsi e darsi piacere.
C’è un tempo per essere leali e pagare a caro prezzo la propria lealtà, e c’è
un tempo per tradire. Perché è così che vuoi, al di là di tutte le buone
ragioni che hai invocato per giustificarti. C’è un tempo per crescere i figli e
ce n’è uno per lasciarli andare, c’è un tempo per essere giovani e uno per
invecchiare, un tempo per accrescere e un tempo per donare, un tempo per esser
veloci e un tempo per andar piano, un tempo per l’analisi e uno per la sintesi,
un tempo per la complessità e uno per la semplicità. E tutto ciò non una sola
volta, ma tante, in un eterno ritorno, come alla vita succede la morte e
viceversa, perché noi siamo il tutto e il tutto è in noi.
Non c’è un meglio e un peggio. Riusciamo a vivere sapendo questo? Che esiste solo la consapevolezza e qualcuno è destinato a incontrarla.


18 giugno, Stornway , isola di Lewis
Abbiamo pernottato in un B e B su una scogliera, dove avresti immaginato che
i gestori fossero degli atletici venticinquenni , invece lui sembrava uscito da un film di Bergman, con un barbone lungo e bianco e certi occhietti acutissimi dietro le lenti rotonde. Era molto eccitato del fatto che fossimo italiani e che presto avrebbero fatto un viaggio fino a Venezia,
ma in pullman , perché alla moglie non piaceva volare. Lei non sembrava prenderlo molto sul
serio, si vedeva che era costretta a quella parte da molti anni : lo teneva a bada e lo canzonava, come si fa con certi bambini un po’ invadenti. Quando siamo andati via lui ha voluto che gli
scrivessimo il nostro indirizzo. Mi sono chiesta se anche il viaggio a Venezia fosse una di quelle cose che lei era costretta a sentire da molti anni. Ho provato una calma simpatia.
Abbiamo camminato a lungo su una di queste immense spiagge
bianche, dove il mare fa il suo lavoro da millenni, ed è quasi solo lui a
farlo. Qui entra la marea, in una forma lagunare, lasciando scoperte piccole e
grandissime porzioni di terra, di sabbia bianca come il gesso, su cui
formazioni di muschi di un bel colore grigio rosato aspettano estenuati che il mare torni a coprirli .E lo aspettiamo anche noi, io e Arturo, contenti di essere lì, ma così lontani da casa………..So che nessuno ha bisogno di me per essere felice, ma sento anche i legami come
inestinguibili e ineludibili.


Arturo impiega molto tempo ad allacciarsi le scarpe.
Potrebbe scriverci un trattato. Perché quando siamo in viaggio le sue sono
sempre scarpe “tecniche”, cioè con dei lacci molto lunghi, che fanno tanti giri
intorno a delle “bitte” di acciaio,prima di incontrarsi in un nodo definitivo.
A volte, prima del nodo definitivo, Arturo decide di rifare il lavoro, perché
ha provato ad allargare le dita all’interno delle scarpe, e non c’è riuscito
molto bene, e allora deve allentare, ma dall’inizio, dal primo giro di bitta.
Qualche volta capita che deve stringere, quando la caviglia ha troppo gioco, e
allora è meglio, perché magari l’inizio si salva. Durante le operazioni, a
volte, Arturo si ferma e pensa, o parla, o medita con gli occhi fissi nel
vuoto, le dita intorno ai lacci, in attesa zen del momento propizio per
riprendere il movimento. Durante il cammino verso Santiago le scarpe erano
altamente tecniche, anche le mie, dotate di ammortizzatori per le ginocchia. Ma
ciò che ferma il cammino, sono spesso le cose più impensate, ed ecco che una
piccola bolla tra un dito e l’altro cominciò a funestarmi già al primo giorno.
Ho scoperto allora che le dita devono sì potersi allargare all’interno della scarpa,
ma se ci metti un pezzetto di gommapiuma da tappezziere tra l’uno e l’altro ti salvi anche
l’anima: cammini leggera, non bestemmi più, puoi macinare 15 km cantando. E’
vero, grazie Arturo. Se avete letto, alla fine degli anni 70, “lo zen e l’arte
della manutenzione della motocicletta”,sapete che la manutenzione non è inessenziale allo scopo del viaggio, forse ne è lo scopo stesso. Ma su questo rifletterò ancora.

Non mi piacciono le birre scozzesi.
Da quando ho scoperto le birre di frumento mi si è aperto un
mondo. Non godo di birre diverse da queste, mentre per quelle di frumento nutro
una vera passione, io, e la mia amica Cinzia. I nostri appuntamenti al pub
seguono cadenze fisse, lì sfoghiamo com’è classico, i nostri malumori con il
mondo, ma anche, il maschile che è dentro di noi: esce più durezza e scetticismo nelle nostre
conversazioni in questi locali di quanto se ne possa dedurre dalle nostre vite,
di quanto chi ci conosce possa immaginare . I nostri paradossi filosofici
raggiungono lì vette altissime, e altissime diventano le nostre risate, mentre
la birra ci scalda il cuore e ci libera dalle tossine della tristezza.
In Scozia non c’è una birra che mi piaccia, e Arturo non se
ne capacita, non è contento di questa mia inflessibilità di gusto. Dopo avermi
guidato verso le “ale”, con scarso successo, si rassegna la sera, nei locali
fumosi e umidi, a bere quasi da solo, quasi, perché io bevicchio per non
dispiacergli e perché a volte chiacchieriamo con qualcuno.



Il brutto anatroccolo
dentro


Se non c’è nessuno che ti racconta come sei, se non ti
specchi negli occhi di qualcuno, non ti vedi. Non vedi quanto sei speciale,
com’è bello il tuo sorriso, non ti accorgi che hai i piedi più belli del mondo,
perché nessuno te lo ha mai detto. E così non sai di essere un meraviglioso
cigno, vivi pensando che se sei invisibile è perché sei peggio degli altri, sei
un brutto anatroccolo. Il cigno, nato tra le anatre, non è il figlio nato male,
estraneo a sua madre e quindi a se stesso, ma un animale meraviglioso,
come la fiaba ti svela alla fine, che non ha ancora trovato il suo branco.
Quando lo troverà riconoscerà sestesso negli occhi dei suoi compagni. Ho
impiegato molto tempo per riuscire a dire a me stessa che ero uno splendido
cigno .

Gabriela Pinkola Estes- non dimenticarti mai di te-

E’ la grande curatrice dell’anima delle donne, con le sue
storie raccolte in ogni dove dalla bocca di altre donne, vecchie, in posti dove
ancora si racconta. Una storia può curarti per sempre, perché mette le cose a
posto, ti spiega cosa è successo : il tuo posto era il fondo del mare e tu,
sirena innamorata di un pescatore sei salita in superficie e ti sei perduta per sempre,
perché non era quello il tuo elemento, oppure, il re debole di un regno in rovina
manda le sue figlie lontano, affinché si salvino trovando un marito, ma loro muoiono
durante il viaggio, vittime della mancanza di valore che il padre aveva loro attribuito e
in cui loro avevano creduto. Oppure ancora, una fata invidiosa ti ha mandato un
maleficio alla nascita e tu non puoi farci niente di niente, a meno di non
partire per un viaggio di sette anni, aspettando che il maleficio si compia in
tua assenza. E così ti spieghi come va il mondo, capisci che non puoi andare
contro te stessa, o che ci sono momenti che esigono una scelta e non scegliere
ti porterà comunque un danno, oppure che non serve essere buoni come il debole
re del regno in rovina, se non riesci anche ad essere forte, e così via. Una storia ti dà senso e ragioni, ti collega con il mondo dei vivi e dei morti e rende epica la tua vita, se poi ti ricordi
di raccontarla ai nipoti. E fondamentalmente una storia ti dice che se sei una
sirena non puoi essere contemporaneamente il debole re di un regno in rovina. E così Pinkola Estes è sul mio comodino da dieci anni.

Un giorno una indovina in Marocco, prese una delle mie mani
e se la portò al centro del petto: il suo cuore batteva calmo e forte. Dopo,
sempre tenendomi le mani, poggiò l’orecchio sul mio petto. Ricordo ancora i
rantoli sordi che il suo avvicinarsi mi procurò. A questo punto lei rise molto
forte, disse che il mio cuore non era abituato a farsi sentire, che avrei
dovuto ascoltarlo di più, che tutto dipendeva da lui. Poi si incupì e stette lì a rimuginare un
po’. Mi disse che ero su una strada senza cuore e che avrei dovuto
abbandonarla.. Dopo sono successe tante cose,ma quella sentenza è tornata molte volte nella mia mente.
La strada giusta è quella che coincide col tuo centro, è
quella che si incrocia con quello che hai sempre pensato di essere, con quello
che hai sempre desiderato apprendere, con quelle parti di te dimenticate, represse,alle
quali devi ricongiungerti, perché non c’è niente che non vada in te, tutto ciò
che ti caratterizza è esattamente il motivo della tua esistenza in questo
mondo, anche se non lo sai ancora.
I viaggi con Arturo hanno un cuore




18 luglio, isola di skye

Pioggia e vento a 300 all’ora. Abbiamo fatto ben poco oggi a
Skye, perché attanagliati dalla morsa delle condizioni atmosferiche. Vista
dalla macchina,per quanto il tergicristallo ce lo consenta, l’isola è bella,
verde, con tutte le terre tenute a pascolo, e alti promontori che degradano sul
mare. Lo raggiungiamo dalla parte alta del panorama e all’improvviso ci troviamo su un imponente strapiombo di rocce basaltiche, certi grossi cilindri lucidi e neri, senza
appigli, da far paura solo a guardarli, schiaffeggiati da vento e onde, come in
un romanzo della Bronte .
Restiamo chiusi in macchina, a guardare in silenzio. Più in là il porticciolo sembra
invitarci per un ristoro . Ma gli insediamenti in genere non sono memorabili in queste isole, è la natura la parte migliore. Ci concediamo più di un tè bollente, prima di cercare un posto
per la cena.

Ho sprecato la mia vita, mi è venuto qualche volta di
pensare, quando niente sembrava andarmi per il verso giusto e non mi tornavano
i conti sull’affettività, specie quella con i figli. E’ una sensazione
terribile, ferale, un rimpianto indicibile si impossessa di me, mi strapperei
la pelle di dosso, per la rabbia e l’angoscia di non poter tornare più indietro.
Che cosa avrei fatto, invece, con una consapevolezza diversa?
Ma questa è una domanda senza cuore, come le strade di cui dicevo prima,
una domanda crudele, fatta da un sé che non si rispetta, non si ama, non si tiene nel giusto conto,
un sé che in questi momenti diventa il predatore interiore. Il tempo del
passato era quel tempo e non un altro, io ero in quel tempo e facevo del mio
meglio in quel tempo, con quelle possibilità, con quell’orizzonte di attese, e
non mi conoscevo come mi conosco oggi, perché non era quello il tempo.

Il tempo, con la sua qualità, non solo con la sua quantità.
Non il tempo del passato in quanto tale, ma un tempo qualitativamente diverso,
che si avvicina di più al tempo ciclico. “Cosa vuoi da me madre? Non è ancora
giunta la mia ora” dice Gesù, alle nozze di Cana, quando Maria quasi vuole
forzargli la mano al miracolo. Egli non vuole svelarsi platealmente perché sa che non è quella “l’ora”.L’ora di ciascuno e per ciascuno di conoscere e di assistere alla propria trasformazione
interiore , dove lui stesso è artefice e spettatore, perché è chiaro che non si
tratta di un atto di volontà, ma di uno scaturire spontaneo e sincronico del
nostro essere più profondo. Perdonarsi, perdonarsi, perdonarsi, accettare la
finitezza, accettare di aver fatto male, accettare di invecchiare e di dover
morire, questa è la strada, l’unica. Ma tutto questo arriva quando deve .


Non sentirti al centro ma sii il centro
Tu sei il centro di te stesso, del tuo mondo, delle cose così
come tu le vedi, di quello che ti dà piacere e ti consola, dei tuoi sonni, dei
tuoi progetti, dell’amore e della compassione di cui è pieno il tuo cuore.
Amati, guarda le tue mani e immagina che
siano loro ad accarezzarti la testa, quando sei stanco e teso e disilluso, ma
non cedere alla tentazione dell’amarezza e dello scetticismo. Sono trappole di
valore: non c’è niente che riesca a dimostrare che è inutile continuare a
credere e sperare. In che cosa? Che tutto ha un senso e che tutto è perfetto
così com’è. E in definitiva, che non sei
mai solo se riesci a fare del tuo cuore la tua casa.


Ad essere sinceri

“ Lei ha un tumore maligno del sistema linfatico, ma ha il
90% di probabilità di guarire”. Non volli pensare a quel 10%, perché non
sentivo di essere in pericolo, perché avevo un figlio di 9 anni, e perché mi
ero salvata già altre volte. “Posso farlo ancora”, mi dissi, ricorrendo a un
pensiero magico, come quando si è bambini e si stringono gli occhi e i pugni
forte per far sì che qualcosa si avveri.
Ma era proprio quello che non dovevo fare, ricorrere al senso di onnipotenza,
perché era stato questo a perdermi, come mi spiegò più tardi lo psicoterapeuta
al quale mi affidai, dopo la prima chemio, quando mi svegliai una mattina con
tutti i capelli sul cuscino. Una cellula impazzita è quella che non accetta
l’ordine delle cose, che non vuole stare al suo posto, che rifiuta di essere al
servizio di un progetto più vasto, è una cellula ribelle e presuntuosa, è una
che vuol farcela da sola, ambiziosa e vendicativa, senza rispetto per tutte le
altre cellule, che ignora di far parte di un corpo-anima, crede di sapere di
più, crede di valere di più, e non si aspetta che la morte del corpo di cui fa
parte significa la sua stessa morte. Si fece strada pian piano una certa
compassione di me, un volermi sentire con il mio tumore dentro. Ci riuscivo
solo nell’acqua, mi preparavo delle grandi vasche di acqua calda e tante
candele accese, con effluvi e profumi. Mi sentivo bene lì, in quell’utero. Era
stato questo il mio problema? Mia madre? Il suo utero inaccogliente? Questa la
mia solitudine? l’incapacità ad affidarmi, trasformatasi in autosufficienza?
Non l’avrei mai saputo. Capii invece, un po’ alla volta, di essere un piccolo
organismo vivente, finalmente senza
pretese, ma con la consapevolezza del progetto dentro il quale cammino.
E i miei passi mi riportano a casa.


17 giugno, Oban

Tempo meraviglioso. Lasciamo la casa che ci ha ospitati,
molto presto, al mattino. Siamo un po’ fuori dell’abitato, e tutt’intorno c’è
un odore di inizio, di purezza, come di alba del mondo. Decidiamo di camminare
fino alla fine della strada che termina con un molo e una scogliera, e che,
secondo la nostra mappa, è l’ultimo punto, quello più al nord di tutte le
Ebridi. Ridendo, ci fotografiamo a vicenda, tutti impettiti, col vento in faccia,
come se fossimo eroici esploratori. Domani il traghetto ci porterà a Glasgow, sulla terraferma.


Ad essere sinceri

La sincerità fa
pensare a tutto ciò che è bello, pulito, lineare, semplice. Ma non è proprio
così, perché la sincerità, la tua sincerità, molto spesso riguarda solo gli altri:
i loro difetti, quello che a te non piace di loro, i comportamenti da
sanzionare, quello che non hanno capito di te, commettendo naturalmente
il più grosso errore della loro vita. Difficilmente la tua sincerità riguarda
te, il tuo bisogno di aiuto, la denuncia della tua confusione, i conti della
tua vita che non tornano. E così, la tua “sincerità” ti rende inviso e fastidioso, fa di te il
nemico di chi ti circonda e può diventare il problema più grosso della tua vita
senza che tu lo sappia. Accettare gli altri con il loro livello di sviluppo
emozionale, privi del copione che tu hai assegnato loro, liberi di interagire
con te come meglio credono, diventando spesso dei maestri nella loro diversità,
può diventare il compito della tua vita. Ma prima di questo, quanta fatica..



Glasgow
Bella direi, viva, con una certa aria di città sperimentale,
dove alle facciata vittoriane si alternano
le provocanti sperimentazioni
degli architetti della famosa scuola di Glasgow e di quel genio di mcIntosh.
Tanti giovani colorati e punkeggianti. Andiamo a vedere un’importante
mostra sui preraffaelliti, che era una delle nostre mete già in partenza.
Le donne di Gabriel Dante Rossetti sono meravigliose:
l’incarnato è perlaceo, sotto tutti quei capelli rossi che, come alghe
voluttuose si insinuano nella trama dei pesanti vestiti a pieghe morbide, dalle
tinte sanguigne o prugnacee, gli occhi, quasi puro cristallo, guardano qualcosa
che non sono io, mentre le mani agonizzano come ali, su un grembo che si indovina solo.
Donne della pittura, destinate a morire giovani, perché scrutate troppo da
vicino, consumate, rarefatte, costrette alla resa dallo sguardo del pittore, estenuate
dal fisso gioco “tu sarai così per sempre”, donne che si sono guadagnate
l’immortalità nella fermezza del loro essere, nella purezza incontaminata di un
sogno altrui, che non ammette il movimento.

Elisabeth Siddal


Lei è bellissima, la modella di Rossetti, tanto che lui poi
se ne innamora e la sposa , dopo molte titubanze dovute all’ostracismo della
famiglia, perché Elisabeth è di umili origini. Lei muore suicida con una
overdose di laudano che usava per lenire la depressione. Lei è la bellissima
Ofelia della tela omonima, che galleggia sulle acque di un fiume di vetro,
fatta anch’essa vetro, con le pupille fisse che aspettano che il vento sposti i giunchi per
incontrare un pezzo di cielo. Sento e capisco che non si può rimaner
prigionieri di un attimo, della fissità di un’idea, di quell’ultima cosa che
hai detto; e che niente è vero e niente è falso, mentre è tutto così in movimento,
si muove tutto così veloce… .cio’ che era prima la tua disperazione,
diventa il tuo sorriso, il tuo amore liberato dall’astio, dalla gelosia, dal
dolore della ferita. Il figlio che avresti diseredato per sempre diventa quello
che dà un senso a tutta la tua vita, perché si è incaponito a volerti parlare,
ad accusarti, a pretendere, non il silenzio, non la stanchezza che tu solo
volevi dargli, ma la lotta del confronto, nello scavo delle anime, nella
passione infinita madre-figlio, ora che quel figlio è diventato padre. Quando
morirò, sappiate che le mie ultime parole non volevano essere le mie ultime
parole